Se bruciamo

imparare dal decennio delle proteste di massa

Tuesday, May 07, 2024 by Douglas Rogers

Crowds of protestors marching across the Brooklyn Bridge towards ManhattanIsland

Nei decenni trascorsi da quando gli scienziati hanno lanciato l'allarme sul cambiamento climatico, è diventato chiaro che le élite del fossile non smetteranno di distruggere il pianeta finché non saranno sopraffatte dai movimenti di massa. Questo è più facile a dirsi che a farsi.

In If We Burn: the Mass Protest Decade and the Missing Revolution (in italiano "Se bruciamo: il decennio delle proteste di massa e la rivoluzione mancata), Vincent Bevins prende in considerazione l'ondata di grandi mobilitazioni popolari che ha investito il mondo negli anni dal 2010 al 2019. Grazie a interviste ad attivisti e organizzatori dal Brasile all'Egitto all'Ucraina, offre alcune preziose intuizioni sui modi in cui le persone lottano per un mondo migliore e a volte, tragicamente, finiscono per ottenerne uno peggiore.

Mediante una combinazione di interviste ben realizzate e di un'abile narrazione storica, questo libro estremamente coinvolgente per i suoi stessi meriti: i colpi di scena dei momenti quasi rivoluzionari in piazza Tahrir, Gezi Park e Hong Kong potrebbero rivaleggiare con qualsiasi thriller. Allo stesso tempo, l'attenta rappresentazione di Bevins delle voci e delle lotte degli attivisti offre un profondo senso di lotta umana condivisa. Essendo raramente uscito dalla mia natia Scozia, sono state poche le volte in cui ho sentito un tale senso di connessione, al limite del legame di sangue, con gli alleati globali come quando ho letto questo libro.

È una prova dell'abilità di Bevins il fatto che la sua analisi sia altrettanto coinvolgente quanto la sua narrazione. Sintetizzando interviste con 250 attivisti e organizzatori, e attingendo anche a una serie di teorici del movimento, la sua tesi principale è che una tendenza globale all'"orizzontalismo" (una sfiducia nella rappresentanza, nei leader, nelle gerarchie, forse anche nelle strutture) ha permesso ai movimenti sociali di crescere rapidamente, ma al prezzo fatale di essere stati facilmente appropriati da altri.

Una delle tante cose che ho trovato interessanti del resoconto di Bevins è che non ha praticamente mai menzionato le mobilitazioni per il clima, principalmente in Europa e in America, del 2018-19. E fornisce delle buone ragioni a ciò (la più umiliante delle quali è semplicemente che il suo interesse si concentra sui movimenti che ottengono uno slancio tale da minacciare e/o rovesciare i governi). D'altra parte, è importante considerare come le lezioni di If We Burn si adattino ai movimenti per il clima in generale e a Extinction Rebellion in particolare, non da ultimo in un contesto di crescente mobilitazione riguardo la Palestina.

Ho parlato con Vincent per vedere cosa Extinction Rebellion e altri attivisti per il clima possono imparare dalle sue conclusioni.

Potete ascoltare la nostra conversazione in un podcast qui.

Questa intervista è stata modificata per motivi di lunghezza e chiarezza

Douglas Rogers (D)

Allora, il tuo libro si intitola Se bruciamo: il decennio delle proteste di massa e la rivoluzione mancata. Puoi dirmi di cosa parla?

Vincent Bevins (V)

Sì, il libro vuole essere una storia del mondo dal 2010 al 2020. Naturalmente non è possibile raccontare la storia del mondo nell'arco di dieci anni. Quindi, come ogni libro di storia, è stato necessario scegliere cosa includere e cosa escludere, concentrandosi su una serie di problematiche.

Questo lavoro storico è raccontato, e messo insieme attraverso interviste, come se la cosa più importante accaduta in quel decennio fossero le proteste che divennero talmente grandi da destabilizzare fondamentalmente, o addirittura rovesciare, un governo esistente. E questa storia, questa storia è costruita intorno a una domanda difficile, ovvero: come mai molti di questi movimenti di protesta di massa, queste proteste di massa degli anni 2010, hanno apparentemente portato all'opposto di ciò che chiedevano?

D

Hai presentato una decina di casi di studio in cui hai analizzato momenti specifici in cui le proteste sono diventate così grandi da raggiungere dimensioni tali da minacciare i regimi. Potresti descriverne uno per dare un'idea?

V

Il caso a cui ho dedicato più spazio nel libro, in parte perché l'ho vissuto e in parte perché penso richieda più tempo per svelarlo e più tempo perché le conseguenze diventino evidenti, è il caso brasiliano. Quindi, molto brevemente:

Nel giugno 2013, un gruppo chiamato Movimento Passe Livre (MPL) ha iniziato a organizzare una serie di manifestazioni contro l'aumento delle tariffe a San Paolo, la città più grande del Sudamerica, e lo fa da otto anni. Ma quello che è successo il 13 giugno 2013 è che i media e la classe dirigente del Brasile si sono stancati di queste proteste rumorose, prefigurative e molto dirompenti. I media ne hanno chiesto la repressione da parte della polizia.

La repressione arrivò. E quel giro di vite non colpì solo i sinistroidi, gli anarchici e i punk che erano stati veramente fondamentali per formare il movimento, ma colpì anche persone come me. Ha colpito i giornalisti dei media tradizionali. Ha colpito, tra virgolette, "civili innocenti", ha colpito il tipo di persona contro la quale l'uso della violenza scuote i media tradizionali e il sentimento politico in Brasile.

Così, molto rapidamente, i media tradizionale che avevano chiesto una repressione delle proteste del giugno 2013 hanno cambiato posizione e hanno iniziato a lodare le proteste. Ma ovviamente non potevano elogiarle per lo stesso motivo: le loro giustificazioni o le loro lodi non potevano ricopirare i discorsi dell'MPL stesso, perché l'MPL credeva in un'azione energica diretta con l'obiettivo di demercificare tutti i trasporti pubblici in Brasile. Questo non era un progetto o un approccio tattico condiviso dai media brasiliani, per cui sono passati dal dire "dobbiamo reprimere questi teppisti e anarchici e toglierli dalle strade" a "questa è una grande rivolta patriottica e una difesa del diritto di insorgere per difendere qualcosa", hanno fornito le proprie ragioni per lodare la rivolta.

E così, nei giorni successivi, decine e poi centinaia di migliaia di brasiliani si sono riversati nelle strade, apparentemente per le proteste originariamente organizzate dall'MPL. E questo viene vissuto da molte persone, da molti degli organizzatori originari, da molti simpatizzanti dell'MPL e anche, credo, da me, come un momento di euforica vittoria. Come dire: "Oh mio Dio, è successo". Il popolo sta finalmente insorgendo per servizi pubblici migliori e contro la brutalità della polizia.

Ma diventa abbastanza chiaro che le persone che si precipitano in strada non si precipitano necessariamente a sostegno dell'MPL, ma cronologicamente dopo, e questa distinzione diventa molto importante per tutto il decennio delle proteste di massa. E così scendono in piazza con delle idee del tutto diverse sul significato dell'intera faccenda e hanno orientamenti politici diversi rispetto agli organizzatori originar. L'MPL non solo non crede nella guida della rivolta popolare (ritiene che il suo compito fosse quello di innescarla e poi uscire di scena). Persino i suoi tentativi di mantenere l'attenzione sull'obiettivo originario, che era quello di abbattere l'aumento delle tariffe degli autobus e di mantenere l'attenzione sul trasporto pubblico, vengono spazzati via dall'ondata di umanità scesa in piazza.

Dopo la repressione... Insomma, succede molto di più. Ma per riassumere: nelle settimane successive alla repressione, i nuovi arrivati, alcuni dei quali potremmo ora riconoscere come gli inizi dell'estrema destra in Brasile, a volte li chiamo proto-bolsonaristi perché sono le persone che poi finiranno per diventare i soldati semplici del movimento di estrema destra a sostegno di Jair Bolsonaro, entrano in un conflitto, inizialmente verbale e poi in maniera violenta, con gli organizzatori originari e finiscono per espellere dalle strade molti degli esponenti originari di sinistra.

E in questa strana palla di energia e in questa strana specie di pentola a pressione di una super rivolta di massa non pianificata, nascono altri movimenti, uno dei quali è un gruppo di giovani libertari e attivisti del libero mercato, finanziati da think tank negli Stati Uniti o formati dai fratelli Koch. Questo gruppo, a mio avviso, si rende conto che il significato delle proteste è in discussione e si presenta sulla scena fingendo di essere ciò che il MPL è in realtà. Finge di essere un movimento giovanile idealista autonomo, senza leader e coordinato digitalmente, viene creato persino un nome che è una copia intenzionale dell'MPL, l'MBL, ovvero il Movimento Brazil Livre piuttosto che l'MPL. E questo gruppo, negli anni successivi, svolge un ruolo molto più importante nel plasmare i risultati politici in Brasile di quanto non faccia l'MPL. Queste persone guidano un nuovo movimento di protesta per rimuovere la presidente di centro sinistra Dilma Rousseff, eletta democraticamente, per poi dare il loro supporto a Jair Bolsonaro nel 2018, entrando nel governo con lui nel 2019.

Questa è stata almeno la mia esperienza personale. Durante quegli anni, ho assistito a questo strano processo in cui le cose peggiorano e poi peggiorano ulteriormente, dal 2013 al 2019, in Brasile. Sembrava che a un certo punto, dopo la repressione del 13 giugno a cui ho assistito personalmente, il popolo brasiliano chiedesse una cosa, per poi 5-6 anni dopo ottenere l'esatto contrario. Non credo che le proteste siano state la causa diretta di questa inversione di tendenza. Ma certamente hanno scatenato alcune forze che sono diventate una parte importante dell'inversione di tendenza.

Quindi il caso brasiliano è, come ho detto, il più lungo perché l'ho vissuto e credevo, speravo, di essere nella posizione migliore per fornire il tipo di racconto intimo e ravvicinato di un fenomeno in cui il diavolo è davvero nei dettagli e di come, analogamente a molti dei movimenti di protesta di massa che ho descritto in questo libro, le cose cambino davvero dalla mattina alla sera, da una settimana all'altra. E molto di questo viene cancellato o appiattito dall'analisi retrospettiva che cerca di dire: "Oh, riguarda questo evento, questa condizione sociale e questa richiesta". Nel caso del Brasile, quindi, l'ho distribuito sull'intero libro, in modo da poter tracciare davvero il modo in cui le cose cambiano di giorno in giorno e di anno in anno.

D

A proposito di questo lavoro di tracciamento, ne hai già parlato un po'... per dare un'idea del raggio coperto del libro: hai preso l'esempio brasiliano e un'altra decina di esempi per tracciare una sorta di modello generale da te identificato come marcatamente globale, con alcune caratteristiche in comune e che porta a determinati risultati in comune. Potresti descrivere quale sia questo modello?

V

Sì. Tutti i casi che ho scelto di analizzare, come ho detto, comprendono un movimento di protesta che diventa così grande da rovesciare o destabilizzare fondamentalmente un governo esistente. Quindi questi 10-13 casi che analizzo presentano molte caratteristiche in comune per due motivi (forse tre, vediamo).

Uno di questi è la riproduzione intenzionale delle tattiche, per cui molto di ciò che accade negli anni 2010 può essere visto come una risposta all'apparente successo dell'occupazione di piazza Tahrir all'inizio del 2011. Così, dopo Piazza Tahrir, si sono visti molti, molti altri movimenti in tutto il mondo che non solo si sono ispirati a quanto accaduto in Egitto, ma hanno copiato e incollato un approccio tattico.

Ma penso anche che ci siano state condizioni ideologiche e materiali globali che hanno reso un certo tipo di azione più facile rispetto alle alternative storiche, che hanno fatto sì che un certo tipo di risposta alle ingiustizie fosse pronta all'uso e tatticamente e moralmente privilegiata. Per riassumere il fenomeno che stiamo analizzando, possiamo dire che negli anni 2010 una particolare risposta all'ingiustizia o all'ingiustizia percepita diventa egemonica, spesso sembra addirittura l'unico modo o il modo "naturale" di rispondere agli abusi del governo, alle élite che abusano del loro potere, abusando dei cittadini. Si tratta di un tipo di protesta di massa apparentemente spontanea, senza leader, coordinata digitalmente e organizzata orizzontalmente nelle piazze o negli spazi pubblici.

Nel libro voglio mostrare che ognuno di questi ingredienti della ricetta viene da qualche parte. Tutti hanno una sorta di origine storica, ideologica e materiale che possiamo tracciare e io cerco di farlo molto rapidamente. Ma, piuttosto che la collocazione geografica e la genesi di ciascuno di essi, è più importante far capire che tutti vengono da qualche parte: questo non è stato l'unico modo, storicamente non è stato l'unico modo, di rispondere all'ingiustizia. E presenta i suoi particolari punti di forza e le sue particolari debolezze.

Tutti questi elementi possono essere stati più o meno presenti in alcuni casi rispetto ad altri. In alcuni casi, ad esempio nel caso brasiliano, il Movimento Passe Livre era esplicitamente, e ora molti dei suoi membri direbbero dogmaticamente, orizzontalista. Nella loro carta costitutiva hanno dichiarato di essere un gruppo orizzontale e autonomo. In altri casi, si tratta di qualcosa che è esistito concretamente, che è nato dalla realtà, invece di essere una componente intenzionale e ideologica degli organizzatori. Ma questo è il modello che, a mio avviso, ha avuto un incredibile successo negli anni 2010 nel portare la gente in strada, nel destabilizzare o rovesciare i governi esistenti e nel creare opportunità. Ma in molti, moltissimi casi, almeno storicamente, in questo decennio, si è rivelato poco adatto a sfruttare le opportunità così generate.

D

Quindi sì, ho amato il tuo libro, ho amato quello che c'era sotto quella mappatura. E ho trovato inedito e allo stesso tempo umiliante che in un libro in cui il titolo descrive le proteste di massa negli anni 2010, non menzioni mai Extinction Rebellion (XR).

Che rapporto hai con XR? Inutile dire che non siamo rivoluzionari come quelli in Brasile. Noi, io e credo anche qualcuno dei movimenti di sinistra del Nord globale, occupiamo una posizione a volte piuttosto equivoca, per questo mi interessa sapere cosa ne pensi di XR.

V

Nel 2019 ho capito che si trattava di un movimento ecologista radicale che mirava a fare azioni di disturbo per spingere verso un futuro più verde. Questo era la mia opinione all'epoca e non è cambiato molto. Se ho imparato qualcosa in più, è perché le persone mi hanno parlato di particolari approcci ideologici e tattici, ma l'idea generale che avevo allora è che "oh sì, questo è un gruppo radicale che lotta per delle pratiche meno distruttive nell'economia globale". Quindi non ho approfondito molto, ma la mia reazione iniziale è stata subito di simpatia.

D

Ok, quindi da allora non ha più avuto un peso eccessivo per te, né dal punto di vista strategico né da quello concettuale.

V

Quando scrivo un libro come questo, passo così tanto tempo a cercare di capire, di leggere tutto ciò che di buono è stato scritto sui movimenti che analizzo da vicino e di ricostruire la storia che voglio raccontare sui 10-13 casi che includerò, e così passo così tanto tempo a farlo che finisco di cercare di non parlare a sproposito di movimenti di cui non so nulla, nulla in confronto. Su XR non ho fatto nessuna delle analisi approfondite che ho fatto altrove.

D

Ok, interessante, un pubblico relativamente fresco: in tal caso posso sottoporti alcuni precetti e vedere cosa ne pensi! Perché fin dal suo principio credo che una delle cose che ho trovato interessanti di XR è che penso che sia una sorta di movimento "progettato", forse a differenza di alcuni dei tuoi esempi più spontanei... è stato più un progetto di nerd che hanno individuato i problemi del passato, e che, almeno si spera, abbiano delle soluzioni.

Allora, un primo esempio, e probabilmente come uno dei più importanti: XR ha imparato molto da Occupy che l'aveva preceduta a Londra, e c'è stato un lavoro esplicito di integrazione di alcune delle sue lezioni, carenze e punti di forza. Una di questi è la questione dei modelli organizzativi e dell'orizzontalità. Credo che ci fosse, e credo che ci sia ancora, molto scetticismo nei confronti della verticalità. Quindi si è tentato di integrare entrambe le cose in una sorta di ibrido, che non è stata un'innovazione di XR, ma era un modello già esistente chiamato Olocrazia o Sociocrazia. Ti sei mai imbattuto in questo concetto o in generale in questo tipo di sforzo di ibridare il verticale con l'orizzontale?

V

Sì, ho sentito parlare di sociocrazia e naturalmente conosco molti, molti tentativi di sintetizzare o sublimare la contraddizione tra verticalità e orizzontalità. Ma sì, perché non spiega cosa ha significato per XR.

D

Beh, dipende da chi lo chiede... Nel Regno Unito è stato piuttosto contestato, il modo in cui è stato attuato è stato disordinato. Forse non è una sorpresa, perché sono sicuro che tutti possiamo immmaginare come questi movimenti siano innatamente disordinati. Così, siamo cresciuti molto rapidamente nello stile di un movimento orizzontalista spontaneo: siamo stati in grado di scalare e di essere agili e così via, ma siamo stati in grado di mantenere, per un certo periodo, i vantaggi derivanti dalla capacità di coordinarci e di essere coesi. Fondamentalmente abbiamo incontrato dei limiti intorno alla metà del 2019: le tensioni tra questi modelli organizzativi e anche il problema da te identificato più volte nel tuo libro, ovvero molte persone si sono unite al nostro movimento per quello che pensavano che fosse il nostro movimento…

V

Giusto.

D

E quindi sì. Credo che abbiamo incontrato alcune difficoltà determinanti nel far funzionare quel modello che poi, negli ultimi tre anni, sono state forse risolte ed è possibile che la sociocrazia funzioni bene anche adesso, anche se ci sono problemi con... Sì, è una lunga storia. Ma allora: credi che questi modelli funzionino? Per quanto sia un tema ricorrente nel tuo libro, credo che un modo di interpretare la sua tesi sia fondamentalmente che dobbiamo "fare il leninismo". Per dirla in parole povere: questa è la tua replica al consenso orizzontalista.

V

Allora, il metodo del libro è quello interpretativo: ho parlato con 250 persone in 12 paesi. Sarebbe profondamente ingiusto nei loro confronti, e disonesto nei confronti del lettore, se dicessi: "Ecco le risposte che penso siano giuste. Ecco il tipo di cose che voglio da voi". Si tratta di ortogiornalismo, quindi quello che cerco di fare al meglio delle mie possibilità è riassumere le risposte più comuni.

Ora: "eravamo troppo decentrati", è probabilmente la risposta più comune. Questo accade sia a destra che a sinistra. Succede anche tra molte, molte persone che rifiutano la stragrande maggioranza di ciò che è il leninismo senza virgolette. Questo include persone che si trovano a destra del centro: nel libro scelgo tutti i tipi di movimenti, ideologicamente si collocano lungo tutto lo spettro. Ma ancora una volta, non credo che le persone intervistate arrivino alla conclusione che ci sia una quantità perfetta di centralizzazione o decentralizzazione. Penso che ciò che ne emerge è che ci sono varie forme organizzative per diversi movimenti e per diversi momenti storici in diverse località geografiche del mondo e feticizzare la massima centralizzazione o il massimo decentramento, o qualsiasi forma particolare di movimento, può distrarre dalla scelta di ciò che è più adatto alla sfida. E poiché i lettori del libro provengono, si spera, da luoghi geografici molto, molto diversi tra loro e le sfide che devono affrontare sono molto diverse, credo che, auspicabilmente, spetti al lettore decidere che conclusione trarre da questo libro.

Mi ha fatto molto oiacere vedere le persone di diversi paesi dire: "Oh, questo mi ricorda quello che è successo con il mio movimento". Mi ha fatto piacere anche vedere che le persone arrivano a domande diverse, a conclusioni diverse sulle mie conclusioni.

Allora, c'è un paragrafo del libro che ha attirato l'attenzione e un estratto è stato riprodotto nella rassegna stampa del Guardian: non tutti hanno cambiato opinione. Ma tutti quelli che si sono mossi, che hanno cambiato opinione, si sono mossi nella stessa direzione. Tutti si sono riavvicinati all'approccio organizzativo, tra virgolette, leninista. Ma poi, subito dopo, dico che il fatto che questo particolare insieme di pratiche si sia formato in primo luogo, e il fatto che si sia contrapposto al leninismo, che sia emerso come una risposta al leninismo, un rifiuto di Lenin. E tutto ciò è storicamente contingente.

Questo è storicamente contingente: l'idea che queste cose vadano tutte insieme verso questa parte dello spettro o che dall'altra parte dello spettro ci sia qualcosa come, tra virgolette, il leninismo. Tutto questo è storicamente contingente e non c'è ragione che lo spettro debba esistere in quella forma.

D

Una cosa che hai menzionato e che mi ha particolarmente colpito è la reazione al tuo libro come una sorta di argomento di interesse a sé stante. Ne ho parlato con molti amici e trovo intrigante come spesso mi imbatta in questo tipo di attaccamento emotivo alla forma che hai descritto. Tu attribuisci l'ascesa dell'orizzontalità soprattutto al fallimento dell'Unione Sovietica e alle idee del XX secolo in Occidente. Sono curioso di sapere se hai altre idee oltre a questa sul perché. Perché non si tratta solo di persone anziane che sono state disilluse dalla caduta del muro di Berlino o altro. Più una persona è giovane, credo, più è probabile che, anche dopo la storia recente degli anni 2010 e le interpretazioni come la tua, propenda ancora per l'orizzontalismo. Hai qualche altra idea sul perché questo tipo di mentalità affascini ancora così tanto la gente?

V

Quindi, tu dici che c'è un sentimento emotivo o un attaccamento emotivo alla forma che ho descritto, giusto?

D

A me sembra che vada più in profondità della semplice storia di un progetto fallito.

V

Allora, ti dirò che se non avessi vissuto il Brasile e se non avessi intervistato tutte queste persone che hanno vissuto queste eruzioni nei loro rispettivi paesi, probabilmente io stesso sarei più emotivamente incline a trovare una sorta di sintesi teorica molto elegante che permetta di incorporare tutto, piuttosto che giungere a una serie di conclusioni, in alcuni casi un po', spero sensibili, ma forse un po' crude. Perché le persone che ho incontrato in tutto il mondo hanno visto cosa c'è dall'altra parte del successo apparente.

Alcune delle persone che hanno vissuto l'altra parte di quell'apparente vittoria iniziale si scagliano contro l'orizzontalismo molto più duramente di quanto non lo faccia io nelle conclusioni. Spesso si arrabbiano molto quando viene fuori questa parola. Un interlocutore importante, che non ho citato perché pensavo sarebbe stato troppo duro, ha detto: "Alla fine ho capito che l'orizzontalismo è il male".

Ma ok, mi chiedi se c'è qualcosa di più del semplice fallimento dell'Unione Sovietica? Assolutamente sì, credo che tu abbia ragione. Penso che ci sia una serie di cose, che spero diventino tutte chiare alla fine del libro, ma alcune le ho messe all'inizio mentre altre le ho accennate solo alla fine.

Penso che sì, a partire dalla seconda metà del XX secolo, in Europa occidentale e soprattutto negli Stati Uniti, qualsiasi tipo di associazione con l'Unione Sovietica, a seguito non solo del maccartismo ma anche dell'Ungheria del 1956, divenne qualcosa che molti pensatori e attivisti volevano evitare, per ragioni sia ideologiche che materiali; come se la tua carriera o la tua vita potessero essere distrutte per via di un'associazione alla dottrina ufficiale marxista-leninista. Ma anche nel '58, quel modello aveva qualcosa di stantio, di poco stimolante, ciò che stava accadendo in Unione Sovietica non era granché impressionante. Quindi sì, questo è assolutamente vero. Poi, tra il 1989 e il 1991, la situazione si sgretola. Questa sembra una buona prova per chi era già propenso a credere che quel modello fosse stato screditato, che non ci fosse nulla che valesse la pena salvare. E che bisognava invertire completamente la rotta, come se ci fosse una sorta di semplice inversione non dialettica, anche se non tra tutti, ma alcuni pensavano: "Ok, facciamo l'esatto contrario di quello che hanno fatto loro e funzionerà".

Ma ci sono anche delle forze materiali reali che hanno finito per costituire una particolare configurazione della società neoliberale globale, in quello stesso momento ideologico della fine della storia che possiamo dire essere tra il 1990 e forse il 2011, che si tratti di Occupy o di Piazza Tahrir.

In questa stessa epoca ideologica siamo anche più individualizzati che mai; siamo separati da qualsiasi tipo di azione collettiva con altri esseri umani, siamo separati dalle organizzazioni, non solo quelle formali, come quelle del capitale, spesso siamo fisicamente soli. C'è l'illusione di essere connessi, perché tutti guardiamo continuamente i post degli altri. Ma in realtà siamo seduti da soli e rispondiamo solo a ciò che vediamo sugli schermi, siamo interpellati dalla società come individui. Questo è un aspetto che emerge spesso nella letteratura su Bolsonaro e Rodrigo Nunes è uno dei principali interlocutori del libro. Egli parla dell'idea di "neoliberismo dal basso", del modo in cui il soggetto bolsonarista classico vede se stesso, perlo più se stesso, come un'impresa individuale, come un imprenditore, o come un'"impresa di uno" piuttosto che come un membro di una determinata comunità.

Quindi penso che tutte queste cose, questi fattori materiali ideologici, insieme alla decimazione concreta delle organizzazioni che sarebbero state i veri protagonisti delle rivolte sociali nel XX secolo. Partiti, sindacati, movimenti sociali, persino organizzazioni comunitarie, civili, come i quartieri, tutti quello che sarebbero stati i naturali protagonisti nel XX secolo.

Tutto questo si aggiunge a ciò che ho descritto all'inizio. E cioè che una risposta all'ingiustizia è quella più disponibile. È quella che appare possibile e portata di mano quando accade qualcosa di orribile o terrificante, e che non è solo "Oh, ho letto la storia, sai, che l'Unione Sovietica era cattiva e che alla fine non ha funzionato, quindi dobbiamo fare il contrario", è anche che mi vedo come un individuo. Credo che io, come tutti gli altri, debba essere il leader di tutto e non mi sono mai impegnato in un'azione collettiva vera e propria, tranne forse sul campo da calcio, quando ero più giovane, quando tutti dovevamo attuare la strategia che l'allenatore proponeva. Quindi penso che tutto ciò abbia reso questa, come ho detto, l'opzione più facile: sembrava essere l'opzione più facile a disposizione.

D

Sì, ti ho sentito parlare altrove dell'individualizzazione e di un certo punto di vista soggettivo. Per me questo è un modo importante di pensare all'organizzazione, soprattutto, ricordo che in un momento del libro hai citato brevemente la storia del sindaco di San Paolo Haddad che parlava di "pizza party marxisti"... è un dettaglio minuscolo, e penso che sia facilmente trascurato nella grande portata e nei movimenti storici che hai trattato, ma per qualche ragione mi è rimasto impresso. Sì, quegli spazi, come dici tu, non occupano più gli stessi spazi fisici. E sì, la direzione generale della società sembra prestarsi a certe forme politiche.

Se possiamo allargare un po' l'analisi delle tattiche rispetto alla strategia, tu parli della protesta come di un'azione fondamentalmente comunicativa. È una cosa che mi riguarda molto da vicino. Per un po' di tempo ho fatto parte dell'ufficio stampa di XR UK, e spesso ci sedevamo prima di pianificare le azioni o durante e ci dicevamo "quanta copertura sta ottenendo questa azione?" E poi, cosa fondamentale, dopo tutti si chiedevano sempre "Oh, beh, questa azione ha avuto successo?" Guarda i titoli dei giornali. Ce ne sono abbastanza o no? Se questo non è un modello sufficiente, e presumo che non lo sia, quali criteri suggerisci come alternative per misurare l'impatto di un'azione piuttosto che la copertura?

V

No, credo che questo sia sufficiente quando si parla di protesta. Questo strano fenomeno sul quale si basa il mio libro è cosa succede quando una protesta smette di essere una protesta. Cosa succede quando c'è il passaggio dal quantitativo al qualitativo, come se un aumento quantitativo potesse influire sulla trasformazione qualitativa del fenomeno. Quindi, il fatto che la protesta sia un'azione comunicativa non è un problema. Anzi, è un bene. Penso che sia importante esserne consapevoli mentre si valutano le strategie migliori, si valuta a chi si vuole comunicare, come si vuole comunicare, la forza con cui si vuole che il messaggio arrivi e così via.

Quello che succede spesso nel libro è che si viene a creare una protesta a cui si uniscono così tante persone che diventa una situazione rivoluzionaria. E a quel punto... a volte non c'è più nessuno a cui comunicare. Voglio dire, questo è un momento strano in alcuni casi del libro: le proteste hanno continuato ad agire come proteste quando non c'era più nessuno con cui protestare. Come se il governo non ci fosse più, come se il dittatore avesse preso un aereo e fosse fuggito dal paese.

C'era un vero e proprio vuoto di potere, eppure questa azione comunicativa è continuata perché era quello che la gente sapeva fare, e non c'era stato alcun piano per istituire un comitato rivoluzionario o una riunione delle organizzazioni della società civile per pianificare una transizione. Non biasimo nessuno per non averlo fatto, perché nessuno aveva previsto le dimensioni dell'esplosione. In quel momento, penso che ci fosse bisogno di qualcosa di diverso.

D

Interessante. Se posso azzardare a far dialogare questo contesto essenzialmente rivoluzionario con quelcosa a me più familiare, ovvero i dibattiti del movimento climatico globale del nord su cosa fare la prossima settimana, su quanto vale questa cosa che abbiamo appena fatto... Penso che il tratto distintitvo della nostra tattica, parlando come movimento climatico in generale, sia attualmente una sorta di 'attacco all'arte', la tattica della zuppa su un dipinto. Mi piace quanto questo suoni incongruo dopo aver sentito dire: "Oh, beh, non abbiamo rovesciato il regime", eccetera. Ma credo che ci sia una sorta di tensione produttiva in quanto il contesto è molto diverso.

Non stiamo parlando, voglio dire, e mi rendo conto che queste cose possono insinuarsi in te, ma, sai il livello tattico quotidiano, settimana per settimana, mentre il livello strategico su cui operiamo è la questione di come possiamo ottenere la massima copertura. Spesso queste azioni sono fatte per i media, questo è il modello, mentre la discussione è che devono essere come ho chiesto. Quindi sì, questo vale solo per il contesto del Nord globale. È un esempio di azione collettiva. È una tattica. Abbiamo provato altre forme e questa è una di quelle che è emersa, in parte perché è pronta per i media. In generale, cosa ne pensi degli attacchi all'arte, della zuppa sui dipinti?

V

Ti darò la risposta è lunga. Come lo valutiamo? Giusto. Una cosa che ho detto in un'intervista su Jewish Currents con Alex Press è che siamo arrivati alla conclusion che se qualcuno al potere sta facendo qualcosa e tu vuoi che smetta: sensibilizzare, avere ragione, dimostrare al mondo che quello che sta facendo è male, non è sufficiente. Se le persone al potere stanno facendo qualcosa e vuoi che smettano, devi togliere loro il potere o fare in modo che sia nel loro interesse cambiare. Cambiare le loro azioni, giusto?

Quindi, nel breve periodo, penso che, forse non sarai d'accordo, forse le persone del tuo movimento non saranno d'accordo, ma almeno nel breve periodo, penso che gli stati saranno al centro della transizione o meno dell'economia globale verso un modello meno distruttivo. È l'insieme degli stati esistenti a costituire il sistema globale. È lì, che ci piaccia o no, e credo che saranno presenti nei momenti cruciali di una possibile transizione o non transizione verso un'economia meno distruttiva.

Quindi, sensibilizzare l'opinione pubblica, dimostrare che qualcosa non va bene, dimostrare che un'altra opzione è possibile, possono essere tutti ingredienti importanti in una ricetta per togliere potere a individui specifici o fa sì che sia nel loro interesse cambiare. E questo è un altro aspetto che, secondo me, alcuni elementi della sinistra anglofona rifiutano, cosa che è molto meno comune, ad esempio, in Sud America: l'idea che cambiare il comportamento di un politico sia una sconfitta, ovvero riuscure in qualche modo a prendere un insieme di cariche istituzionali esistenti e a fare abbastanza pressione su di loro da indurli a venire incontro ad alcune delle vostre richieste, per poi portare a casa tale vittoria sia in qualche modo una sconfitta. Penso che questo sia ancora presente e anch'io sono cresciuto con questa idea: vicino alla "fine della storia" negli Stati Uniti, come se in qualsiasi modo preoccuparsi o interagire con lo Stato esistente significhi indebolire o compromettere il proprio movimento. Ma storicamente, se riesci a costringere le persone al potere a cambiare le loro azioni perché hai fatto pressione su di loro dal basso, è una vittoria e non c'è motivo di suicidarsi subito dopo aver ottenuto una vittoria.

Allora, la zuppa sui dipinti: dipende davvero da come si presenta. Sembra che il messaggio trasmesso alla società sia che c'è un piccolo gruppo di giovani che vuole davvero, davvero fermarsi a pensare a ciò che sta accadendo al pianeta e vuole davvero che ci si fermi a prendere in considerazione un allontanamento da un modello davvero distruttivo, e potrei capire come questo possa essere parte di un insieme più ampio di pratiche e orientamenti strategici che coinvolgono più persone nel movimento o che portano i politici a prestare attenzione. O che fa sì che altre soluzioni appaiano più possibili lungo la strada. Potrei anche immaginare che infastidisca alcune persone che non devono necessariamente essere dalla vostra parte, perché non le avrete mai dalla vostra parte, ma sai già che mi preoccupa di più la distruzione del pianeta piuttosto che infastidire le persone. Quando infastidire qualcuno è efficace, e a volte infastidire le persone è incredibilmente efficace, a volte essere davvero fastidiosi nei confronti delle élite esistenti è il modo in cui si ottengono concessioni da loro e altre volte... quindi questa è una risposta lunga quando in realtà quello che voglio dire è che dipende se funziona. Non esiste una forma tattica ontologicamente progressiva. Non c'è nulla che si possa fare in qualsiasi circostanza che va sempre bene e non c'è nulla che si possa fare in qualsiasi circostanza che non va mai bene. Dipende dalla sua relazione con un orientamento strategico più ampio o con un progetto più ampio se aiuta a detronizzare qualcuno o a far sì che abbia interesse a cambiare le proprie azioni.

D

A proposito di sistemi-mondo, il movimento per la Palestina si è sviluppato di recente. Ho partecipato all'allestimento di un accampamento a Edimburgo. Quindi sì, è tutto in corso. Ritieni che ciò che hai visto suggerisca che alcune delle lezioni del decennio di cui tratti sono state apprese?

V

Sì. Ecco ancora una volta la risposta lunga. Per buona parte degli ultimi sei mesi, e per essere chiari, ho partecipato e sostenuto le proteste pro Palestina, per la maggior parte degli ultimi sei mesi ho detto che sembrava quasi di essere prima degli anni 2010 e dopo gli anni 2010. Prima degli anni 2010, nel senso che mi ricordavano soprattutto il 2003, quando protestavo contro la guerra in Iraq. Nel senso che è stato lanciato un messaggio molto chiaro alle élite, che è stato ricevuto e ignorato. Le proteste rimangono azioni comunicative, azioni comunicative piuttosto efficaci. Nel 2003 George Bush e Tony Blair ricevettero il messaggio e scelsero di ignorarlo, questa volta Biden e Netanyahu hanno scelto di ignorarlo.

Per altri versi, dicevo che erano post-2010 perché la gente sembrava meno preoccupata di elevare la spontaneità e l'orizzontalità rispetto a molte proteste degli anni 2010. Si è arrivati ad alcune delle stesse conclusioni di alcuni degli interlocutori del mio libro. Per esempio, una delle azioni più impressionanti, una delle azioni comunicative più efficaci, credo, delle prime azioni contro la guerra è stata l'azione di Jewish Voices for Peace alla Grand Central Station. Non so quante persone, centinaia, migliaia, si presentarono indossando magliette con la scritta "Ebrei per il cessate il fuoco".

Se si vuole dare una lettura attenta, questo è un rifiuto della spontaneità perché fare delle magliette non può essere spontaneo . Bene. Si tratta di un gruppo di gente che si conosce da decenni. Si sono riuniti e hanno detto: "No, sappiamo che i media mentiranno su questo. Quindi glielo impediremo. Diranno che siamo antisemiti e che siamo qui per sostenere Hamas. È scritto sul mio petto: Ebrei per il cessate il fuoco". Giusto? Questo mi è sembrato un po' un allontanamento dall'elevazione della spontaneità come idea in sé.

E poi c'è anche quest'altro aspetto che è più che altro una conseguenza del caso specifico. Il contenuto particolare del movimento, perché spesso negli anni 2010 si diceva, spesso si ripeteva questa frase come se si trattasse di un fenomeno postmoderno di grande impatto, ovvero che le proteste avessero un "significante fluttuante". Cià stava a significare che potevano riguardare tutto e niente, e da una mattina all'altra potevano riguardare questo o quello. Sembrava che negli ultimi sei mesi molte persone fossero intenzionate a dire "No, vogliamo porre fine al massacro dei palestinesi in questo momento". Non puoi presentarti e dire che si tratta di legalizzare l'erba.

Ma di nuovo, questo è più semplifice quando si tratta di un movimento contro la guerra. Perché quando il tuo governo sta aiutando un altro governo a compiere crimini contro l'umanità, è molto semplice. È molto facile, tra virgolette, trasmettere un messaggio disciplinare. È molto facile riunirsi e dire: "Vogliamo che la smettiate". Giusto? Mentre nel giugno 2013, in Brasile, ci si chiedeva: perché è successo adesso? Ognuno può lamentarsi della società, mentre nel caso di un movimento contro la guerra, la forma di protesta è molto adatta perché è chiaro che se si protesta contro la guerra del Vietnam, il messaggio è "fermate la guerra del Vietnam". Se si protesta contro Gaza, il messaggio è "smettete di aiutare Israele a massacrare i palestinesi", giusto? Quindi, in questi due sensi, ho pensato che fosse in qualche modo una sorta di "post anni 2010".

Ma poi il giro di vite della Columbia University da parte della polizia di New York ha riprodotto molti elementi che per la prima volta ricordano il fenomeno del mio libro. Quali sono gli elementi che lo ricordano? Uno è la repressione di un gruppo demografico vulnerabile della cittadinanza, che sconvolge la popolazione e porta all'esplosione di proteste in solidarietà, così che la repressione da parte della polizia di New York porta al diffondersi della tattica dell'accamparsi per via della repressione, a causa dello shock della repressione da parte della polizia di New York, e su questo credo che tutti siano ampiamente d'accordo sull'inutilità, su degli studenti che stanno solo cercando di impedire che vengano commessi orribili crimini di guerra.

Poi c'è di nuovo il tentativo, molto attivo, di prendere elementi poco idonei all'interno del movimento di protesta e usarli per dare una rappresentazione dell'intero gruppo. Così, abbiamo visto come i media di destra si sono subito fatti vivi e hanno cercato di trovare la persona più pazza di Manhattan. E dire: "Oh, guardate, ho trovato questo tizio, è quello che sono le proteste". E ancora, la risposta a questo sembra essere molto post-2010.

C'è un articolo sull'Atlantic. Non so se hai visto questo articolo dell'Atlantic, in cui sembra che sia successo che i giornalisti dell'Atlantic siano andati all'accampamento della Columbia e abbiano voluto parlare con tutti. E tutti quelli che hanno incontrato nell'accampamento gli hanno detto: "Abbiamo nominato un referente per i media. La persona con cui devi parlare oggi è questa donna". E questo li frustrava molto, perché credo che gli studenti della Columbia siano giunti alla conclusione, forse corretta, che i giornalisti fossero lì per trovare qualcuno che dicesse qualcosa di stupido, mentre loro avevano deciso in anticipo, e questa è una delle lezioni che si trovano nel libro, che se un movimento non è in grado parlare di se stesso lo farà qualcun altro al suo posto. Hanno escogitato un piano del tipo: "Oh no, questa donna è la donna che parlerà con la stampa oggi. È la persona più brava in questo, è la persona che abbiamo deciso per questo lavoro.

E per alcuni dei sostenitori più estremi della versione più pronunciata dell'orizzontalismo degli anni 2010 questo sarebbe stato visto come verticalità. Perché, oh, questa persona parla per tutti gli altri, e tutti dovrebbero fare tutto e così via. Quindi nelle ultime settimane si è iniziato a riprodurre alcuni dei fenomeni degli anni 2010 in modi che generano sia opportunità che sfide.

D

Prima hai citato Burnout di Hannah Proctor; c'è stato anche Exhausted of the Earth, di cui sono sicuro che ti sia imbattuto o abbia letto. E in un'altra intervista ti ho sentito parlare di alcune interviste che erano troppo pessimiste per essere inserite nel libro. Mi incuriosiscono anche le note che non riporti nel libro. Ad esempio, l'esaurimento nervoso non è uno dei temi principali, ci sono alcuni riferimenti, ma l'aspetto della sofferenza emotiva è qualcosa che hai riscontrato spesso?

V

Ci sono un paio di cose che ho considerato, ma che non ho sbattuto in faccia al lettore. Una è la profondità della depressione in cui cadono alcuni degli intervistati. Penso che sia sufficiente dire che questo accade senza che il libro sia un'indagine su questi stati emotivi e su cosa significhino, come si sentano, come appaiano. Questo è un'altra cosa per un altro grande libro e molti altri grandi libri, ma non era quello che stavo cercando di ottenere. Ma non solo non era questo l'argomento principale del libro, sentivo che alcune di queste cose erano davvero troppo orribili di persona. Anche se stavamo registrando. Ho detto: "Non è il caso, non vogliamo che si sappia in giro".

E poi un'altra cosa che è stata solo accennata e che non volevo sbattere in faccia al lettore è come in realtà, con rabbia e spesso con violenza, alcuni degli intervistati rifiutano l'orizzontalismo. Spesso, come ho detto, la parola porta un lampo di rabbia o uno sguardo di profonda preoccupazione sul volto di alcuni delle persone intervistate. Anche in questo caso, si tratta di qualcosa su cui non ho puntato, non mi sembra una rappresentazione produttiva. Non ho scelto le trasformazioni più sensazionali e ideologiche. Ho scelto quelle che erano più rappresentative del maggior numero di interviste, presentate in modo sobrio e credo in un modo che queste persone avrebbero davvero sostenuto in seguito, piuttosto che come una sorta di scatti di rabbia.

D

Immagino che la ragione per cui te lo chiedo sia che, sebbene tu dica, e penso che tu abbia ragione, che scrivere un libro che sia leggibile e che abbia una tesi particolare, sì, l'aspetto emotivo non è il punto. Tuttavia, penso che ci sia un'intrigante sovrapposizione in cui questa sorta di costruzione di senso intellettuale implica sempre, necessariamente, una grande componente emotiva, che sia negativa o che sia che si speri... voglio dire, si spera che ci siano alcune interviste positive di persone che dicono: "Sì, mi ha dato la forza" o, non so, delle persone che guardano a queste interviste con un certo affetto. Voglio dire, c'è anche questo lato?

V

Oh, sì, sì. C'è nel libro. Alcune persone dicono che questo "è ancora il giorno più bello della mia vita. Anche se so come è finita e quanto siano state orribili le conseguenze a lungo termine. Quel giorno ho intravisto qualcosa che mi ha fatto sentire più vivo di qualsiasi altra cosa nella mia intera esistenza, e lo rivivrò per il resto della mia vita e cercherò di capire cosa significa per il resto della mia vita". Quindi sì, assolutamente. Questa tensione, tra la potenza dell'esperienza e il difficile lavoro intellettuale e cognitivo per darle un senso, è qualcosa che ho riscontrato. Sì, in tutto il mondo.

D

Come ultima domanda: qual è la tua opinione personale riguardo al futuro e allo stato del mondo? Non necessariamente in quest'ordine.

V

Uhh...

Ancora una volta, continuiamo a tirare fuori questa frase: "Che ci piaccia o no". Ci sono cose che esistono, che ci piacciano o meno, e questa è un po' la pratica originale del materialismo storico, giusto, non è quella di dire: "Come vorrei che fosse il mondo?". Si tratta di capire cosa c'è e come possiamo agire per renderlo il migliore possibile, date le opportunità; e che ci piaccia o no, ci troviamo di fronte a una serie di pericoli molto seri. E forse anche qualche opportunità. Non importa se vorrei che fosse diverso: ciò che conta è come analizziamo seriamente le opportunità e i pericoli che lo stato delle cose offre.

La situazione è molto peggiore di quanto pensassi nel 2011. Dovrei, tra virgolette, abbandonare ogni speranza? Speranza di cosa? La speranza di ciò che pensavo fosse possibile 15 anni fa? Non importa, perché vivremo tutti insieme su questo pianeta, che ci piaccia o no. Interagiremo con il sistema economico e politico globale che esiste, che ci piaccia o no. Il punto è capire come possiamo vivere al meglio gli uni con gli altri e come agire al meglio su questi sistemi per renderli il più possibile validi, date le contraddizioni e le opportunità insite in essi.

Per me è facile dirlo: so che per gli standard globali conduco una vita incredibilmente privilegiata. Ma questa è comunque la mia risposta. Non mi lascio andare alla disperazione per lo stato del mondo perché, in quanto stato del mondo, è lo stato del mondo e questo è ciò che dobbiamo affrontare.

D

Grazie , in bocca al lupo con il tuo lavoro.

V

Grazie di cuore. Grazie ancora per l'interesse.


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